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Il Samaritano e le comunità parrocchiali aprono le porte alle famiglie afghane

Tombazosana nel Comune di Ronco all’Adige, quasi 600 abitanti, e Castelletto nel Comune di Soave, circa 500 abitanti, da qualche settimana hanno due famiglie in più. Sono arrivate dall’Afghanistan attraverso la tratta aerea dell’Esercito italiano, con un corridoio umanitario direttamente da Kabul, in cerca di pace, speranza, semplicemente vita. A Tombazosana quattro fratelli rimasti senza genitori, due maschi e due femmine, e di età diverse, due dei quali minori, mentre a Castelletto di Soave un papà, una mamma incinta, un nipote 17enne e cinque figli, di cui il più grande che ha 7 anni. E, in perfetto stile Caritas, due comunità parrocchiali pronte ad accoglierli, seppur tra tante difficoltà e paure iniziali. Annalisa Avesani e Lucia Filippini sono le due operatrici del Samaritano, il braccio operativo di Caritas Verona in questo progetto, che stanno accompagnando le famiglie e le parrocchie in questo meraviglioso progetto di accoglienza. «Abbiamo trovato due comunità calorose – ci raccontano all’unisono – tante persone che hanno deciso di aprire non solo le porte fisiche della loro parrocchia, ma anche quelle del cuore. Due Caritas parrocchiali vicine, che si fanno carico delle difficoltà delle due famiglie, sono di supporto e affiancamento di noi operatori. È stata una accoglienza meravigliosa».

Le due famiglie erano arrivate a Verona un paio di mesi fa ospitate in due centri di accoglienza straordinaria dove è mancato il calore umano tipico di una parrocchia, come pure l’accompagnamento concreto in alcune dinamiche fondamentali, soprattutto quando ci sono minori e bambini. Il passaggio a Caritas è stato fondamentale in tal senso. Continuano le due operatrici: «Ora i bambini sono tutti iscritti alla scuola dell’obbligo del territorio, gli adulti hanno iniziato la scuola di italiano e i più piccoli inizieranno la materna a gennaio. L’accoglienza di una famiglia richiede attenzioni e dinamiche ben diverse rispetto a gruppi di uomini adulti e che spesso arrivano soli. Con i bambini poi serve un impegno non indifferente». Cosa significa però che siano dell’Afghanistan dopo tutto quello che si è visto in tv in queste settimane? «L’approccio educativo e relazionale non cambia per noi operatori: abbiamo davanti a noi persone che hanno bisogno della nostra presenza per ricostruirsi un’identità, un percorso di vita nuovo e quindi per noi poco cambia il luogo di provenienza. È chiaro che di Afghanistan se ne è parlato tanto. All’inizio anche noi operatrici eravamo più emozionate, anche curiose per certi versi, ma abbiamo notato che è stato più che altro nelle due comunità, tra i volontari, che è emersa questa idea di emergenza. Ed è molto bello vedere la responsabilità che sentono sulla pelle per l’accoglienza di due famiglie così».

La lingua, la religione, le paure per lo straniero che non si conosce sono sicuramente dettagli che vanno tenuti in considerazione quando si accolgono nuclei famigliari come questo, ma anche qui le due operatrici Caritas non hanno dubbi: «Il terreno era già ben preparato in entrambe le comunità e un complimento va fatto ai due parroci, don Davide Fadini a Tombazosana e don Stefano Grisi a Castelletto, anche loro presenti e interessati. Anche perché le due famiglie sono state inserite in edifici delle parrocchie, in spazi adiacenti a dove si svolgono attività pastorali. Le religioni, musulmani a Castelletto e induisti a Tombazosana, non sono un problema e, per quanto incredibile, nemmeno la lingua lo è: ciascun nucleo famigliare ha una persona che parla un po’ di inglese, ma nonostante le difficoltà comunicative i volontari vanno, organizzano uscite, li portano al mercato, a scuola di italiano o a comprare da mangiare. Senza ostacoli».

L’accoglienza nelle due comunità ha mobilitato anche le amministrazioni comunali, i servizi sociali per i minori, le scuole, in una rete che ha coinvolto tutto il territorio. Ma chi sono queste famiglie, cosa sognano ora che sono al sicuro in Italia e che impressioni hanno lasciato in queste prime settimane in Caritas. Ce lo raccontano Lucia Filippini e Annalisa Avesani: «Stiamo parlando di persone che erano inserite bene nella società afghana, avevano un lavoro, erano riconosciute. Adesso sono qui e si vede che hanno un po’ di timori per il futuro, non sanno cosa sta accadendo realmente nel loro paese e stanno cercando di capire sia cosa hanno lasciato, sia cosa li aspetta qui. Però hanno un affetto incredibile verso l’Afghanistan e sono dispiaciutissimi della situazione attuale. Cosa sognano? In realtà sono molto concreti. Vogliono rifarsi una vita, ma da noi non pretendono nulla, se non informazioni utili e consigli. Esprimono sempre la volontà di ricostruirsi e la rete di persone che si è creata intorno a loro li aiuterà a riuscirci».

A questo link i racconti dei parroci delle due comunità ospitanti.