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Mons. Pompili: «In questo tempo di analfabetismo dell’amore, la carità ci spinge al bene comune»

Tratto da Verona Fedele.

Il Vescovo di Verona, mons. Domenico Pompili, ha voluto incontrare i volontari e gli operatori di Caritas diocesana veronese in occasione della giornata dedicata alla Caritas nel contesto della festa della Beata Vergine Maria Addolorata al Santuario della Madonna della Corona. Queste le parole del Vescovo alle tante persone presenti e arrivate da tutta la diocesi.

Il tempo in cui viviamo

«Stiamo vivendo un periodo di grosse crisi. Dapprima la pandemia, poi la guerra e adesso questa crisi climatica, i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti, tanto che oggi cominciano ad aumentare anche i migranti climatici e non più solo quelli politici a cui eravamo abituati. E in questo tempo di grandi crisi, la domanda che si trova al centro della missione di Caritas riguarda proprio il rapporto tra giustizia, pace e salvaguardia del creato. Sembrano temi lontani tra loro ma in realtà sono correlati. E sembrano anche lontani dalle Caritas delle nostre parrocchie, ma si può notare, invece, una vicinanza importante. Nella società attuale si sta creando una separazione tra economia e società, tra economia e lavoro, tra economia e democrazia. Vi faccio un esempio fuori dai nostri confini: la Gran Bretagna fino a qualche anno fa era legata al mondo manifatturiero. Ora quello è un settore minimo dell’economia di quel paese, perché milioni di persone lavorano in ambiti economici. E così lentamente è anche qui da noi. Non ci sono più lavori che si tramandano da padre a figlio e ormai la società è fatta di occupazioni che non sono più solamente manuali. È qui che si deve inserire la nostra Caritas: deve osservare questi cambiamenti, interrogarsi sulla situazione, riflettere sulle questioni più importanti che la società ci presenta, tra cui ad esempio questo legame che sta sparendo tra società ed economia, tra economia e lavoro, tra economia e democrazia. La Caritas in questo contesto ha e avrà sempre di più una funzione pedagogica».

I volontari e gli operatori di Caritas

«Voglio ringraziare i volontari della nostra Caritas, ma anche i suoi operatori, perché non stiamo parlando di operatori normali del sociale. Chi lavora per la Caritas, lo fa come una sorta di debito di reciprocità: la nostra vita è una sorta di continuo interscambio in cui diamo e riceviamo ogni volta in ugual misura. Proprio nell’ambito della Caritas penso all’esempio della casa di accoglienza Il Samaritano, che è una struttura no profit, in cui gli operatori che ci lavorano vivono quotidianamente questa reciprocità con gli ospiti. Il Samaritano offre lavoro ad alcuni, ma permette anche di far vivere questo continuo interscambio tra chi dà e chi riceve. Gli operatori e i volontari della Caritas sono testa, mani e piedi dello stesso corpo, perché ci mettono il loro pensiero, perché sono operativi senza mai tirarsi indietro e perché sono sparsi ovunque in diocesi, basti pensare ai nostri Empori o ai Centri di ascolto».

Il bene comune e l’empatia

«La Caritas è la strada per educare al bene comune. E la carità è un bene comune. Anzi, la carità in questo tempo di analfabetismo dell’amore è un atteggiamento pedagogico che ci spinge al bene comune. Una delle difficoltà che riconosco è che oggi cambia un po’ anche il lavoro del volontario perché la vera povertà è difficile da riconoscere, i poveri veri spesso sono così umili e discreti che sono difficili da incontrare e la capacità dei volontari sta proprio nel riuscire ad entrare in empatia con le persone per poter intercettare i loro veri bisogni».

Le tre vie del lavoro in Caritas

«Agli operatori e ai volontari di Caritas propongo tre strade nella realizzazione del loro servizio. La prima: la via del conoscere. La carità è uno sguardo del cuore e si sprigiona nel momento in cui noi guardiamo veramente quello che accade con stupore. E guardiamo con gli occhi del voler conoscere la realtà passando dal particolare all’universale. Ora abitiamo in una società universale, dove quello che succede dall’altra parte del mondo, viene portato di riflesso qui. Un operatore della Caritas non può non avere questo sguardo globale della realtà. L’esempio più che mai attuale è quello degli immigrati. Stiamo parlando di un mondo complesso che va al di là di propaganda o di strumentalizzazioni politiche: va conosciuta la storia, i perché, i percorsi di ciascun migrante. La via del conoscere ci permette di sapere chi sono realmente questi immigrati che poi arrivano a bussare alle porte delle nostre Caritas.

La seconda via è quella dell’agire. Attenzione però, l’agire è diverso dal fare. Perché agire significa fare attivandosi in concreto, avendo uno scopo, un obiettivo. Con l’agire ci si mette realmente in gioco. E se nel conoscere serve stupore, nell’agire serve coraggio. Coraggio per rimettersi ogni volta in moto, per chiedersi chi ce lo fa fare, per sbilanciarsi ogni volta verso l’altro, verso il povero che chiede aiuto.

Infine, c’è la via del sentire, cioè del percepire il vero legame che c’è tra le persone. Che non è altro che la fraternità di cui parla il papa. In questo mondo non siamo semplicemente soci, ma siamo fratelli e sorelle, immersi in una realtà piena di contraddizioni e nella quale ognuno ha le capacità per superarle. Solo avendo fiducia, avendo fede, si riesce a superare queste difficoltà e ad evitare che il nostro mondo venga ulteriormente parcellizzato».

Le crisi

«Gli operatori della carità hanno la possibilità di vivere all’interno delle crisi delle persone. Purtroppo, nella società d’oggi non viene mai processata la crisi, ma viene sempre processata la vittima: quella persona non lavora? È colpa sua. Quella persona è fuggita dal suo paese? Poteva starsene a casa. E così via. Chi lavora per la Caritas ha la possibilità di toccare con mano gli scarti di questo processo e può lavorare in questo ambito per mitigare queste difficoltà».

Il silenzio e il mutismo

«Nella mia recente lettera parlo del silenzio e mi viene chiesto se allora la nostra Chiesa e la nostra Caritas non devono alzare la voce davanti a certe ingiustizie. Vorrei sottolineare che ci sono due tipi di silenzio. Il silenzio cattivo è mutismo, è guardare dall’altra parte. Il silenzio buono è quello che permette di far emergere le urla dal silenzio. La Caritas deve agire per far emergere queste urla dell’ingiustizia, deve individuare i problemi e se serve alzare la voce. Ma la voce si può alzare anche semplicemente facendo molto bene quello che si fa. Anche qui porto l’esempio dei richiedenti asilo. Caritas Verona lavora così bene che fa rumore questo suo lavoro sul territorio, si sente la sua voce solo perché fa bene quello che fa, attraverso i suoi gesti, prendendo una posizione concreta, fattiva, senza polemica politica. E facendo le cose fatte bene, senza polemica, a volte si è più efficaci e ciò fa arrabbiare chi è dall’altra parte. Poi, non lo nego, se qualche volta serve realmente alzare la voce davanti a certe ingiustizie, è opportuno farlo».

Caritas e speranza

«Operatori e volontari sono talmente immersi in quello che fanno, che alle volte sono travolti da uno tsunami rappresentato dalle difficoltà delle persone povere. Ci sono giorni in cui la fatica è tanta. In quei momenti serve la fiducia che sta nella fede che ci dice che quello che sta accadendo non è casuale. Chi ha fede, ha un surplus di umanità e di forza per attraversare questi tsunami. Quando invece viene meno la fede, la fiducia, si è portati a fare un passo indietro. È questo il “di più” che ha la Caritas rispetto ad altre associazioni. È l’intenzione che fa la differenza. Infine, non deve mai mancare la speranza: fede e speranza devono camminare di pari passo anche nei momenti più bui. Speranza che allora significa sguardo verso un futuro positivo, non nostalgica verso tempi passati, ma con un’ottica nuova verso quello che sarà».